In ogni campagna elettorale, tra slogan, promesse e programmi, riaffiora una domanda scomoda che pesa come un macigno sulla democrazia italiana: perché, nonostante inchieste giudiziarie, segnalazioni della commissione antimafia e indagini giornalistiche, candidati dall’immagine compromessa continuano a ottenere consensi popolari?
La cosiddetta questione morale non è un concetto astratto, ma un tema che incide direttamente sulla qualità delle istituzioni e sulla credibilità dello Stato. Se cittadini liberi e informati scelgono di sostenere personaggi coinvolti in vicende opache, il problema non riguarda soltanto chi si candida, ma anche l’elettorato che li legittima con il voto.

Il fenomeno ha radici profonde. Un primo elemento è il deficit di fiducia nelle istituzioni e nella giustizia. La lentezza dei processi, unita talvolta a un’inerzia che appare sospetta, finisce per assimilare chi è davvero colluso a chi non lo è, perché agli occhi della gente senza una condanna definitiva tutti appaiono ugualmente “innocenti”. Questo contribuisce ad alimentare la convinzione che “sono tutti uguali”, che ogni accusa sia solo una manovra politica, che il sospetto non sia un campanello d’allarme ma una forma di denigrazione. Il paradosso è che proprio questa percezione porta a solidarizzare con i colpevoli, anziché isolarli.
A questo si somma il trasformismo politico: il passaggio disinvolto da un partito all’altro alla ricerca dello schieramento vincente, come se i valori fossero semplici etichette da cambiare a seconda delle convenienze. Non sono scelte dettate da evoluzioni ideologiche, ma da trattative che hanno il sapore di un mercato, in cui i partiti accolgono chiunque possa garantire voti, indipendentemente dal percorso e dalla credibilità. Eppure, anche questo fenomeno non suscita scandalo: sembra quasi accettato come una normale regola del gioco.
In questo scenario, l’unico strumento di vigilanza reale restano le inchieste giornalistiche, che però, non avendo il potere di emettere condanne definitive, non riescono a produrre l’effetto più importante: allontanare “gli opportunisti” dalla politica. Le prove raccolte, pur se eloquenti, si infrangono contro il muro dell’indifferenza o vengono liquidate come attacchi mediatici.
Il territorio fermano offre un esempio eloquente: qui le “mele marce” non solo sopravvivono, ma rischiano di intaccare l’intero cesto. La mancanza di reazioni forti, sia istituzionali sia sociali, permette a figure compromesse di restare in campo, di rafforzarsi e perfino di diventare punti di riferimento.
Il nodo, dunque, non è soltanto giuridico ma etico. Un sistema democratico maturo non può ridursi al solo rispetto formale delle regole: deve saper distinguere tra chi opera nell’interesse generale e chi sfrutta il potere per sé e per le proprie reti opache. Se questa distinzione viene meno, la politica si riduce a una competizione senza scrupoli, dove il consenso diventa scudo per ogni comportamento.
La questione morale, quindi, riguarda ciascuno di noi. Non basta invocare la magistratura o attendere sentenze che spesso arrivano troppo tardi: serve un’assunzione di responsabilità civile e collettiva. Perché se a essere eletti sono figure già avvolte dall’ombra del sospetto e se il trasformismo diventa pratica accettata, allora non è soltanto la politica a perdere credibilità: è la democrazia stessa a smarrire il suo significato più autentico.

